di Francesco Marocco
Il nome della squadra era i Metropolitani ma il campo che li ospitava si trovava in estrema periferia. L’uomo che chiamavano Presidente l’aveva costruito sterrando un piccolo appezzamento sul limite meridionale della campagna barese, dove la città si sfrangiava nel paesaggio dell’ulivo. Presidente aveva fatto sparire gli alberi come aveva già fatto con tante altre cose nella sua vita: al riparo da occhi indiscreti, in silenzio e senza scrupoli. Per le opere murarie, aveva chiamato una squadra di operai albanesi. Con venti euro al giorno a testa, quelli avevano spianato il terreno, avevano ridisegnato i muretti a secco di recinzione con una precisione stereotomica ormai sconosciuta agli artigiani locali, e avevano tirato su i volumi di spogliatoi, depositi, locale caldaie, ambulatorio e bar. Per i rivestimenti delle docce, Presidente aveva recuperato come saldo di un vecchio debito tutte le giacenze di un grosso magazzino di materiali edili. Si trattava di pezzi sfusi, piastrelle per lo più diverse tra loro, rosse, gialle, azzurre, fiorite, arabescate, a pois o bocciardate, che gli Albanesi erano riusciti a trasformare in un piccolo capolavoro di intarsio sulle pareti degli spogliatoi.
Quando, prima del campionato, si presentarono in cantiere i commissari della Lega, chiamati a verificare la conformità delle strutture ai regolamenti nazionali, quelli eccepirono sulla lunghezza del campo e sulla mancanza di un adeguato spazio di fuga dietro le porte. Presidente non si perse d’animo. Richiamò il caporale albanese e ordinò di spostare il muro di recinzione del campo quindici metri più a sud, irrompendo nella proprietà del vicino, un poverallui che non metteva piede nel suo ettaro di mandorli da almeno dieci anni. Quello che Presidente ignorava chissà quanto volutamente era che quel limite di proprietà coincidesse anche con il confine comunale di Bari con il piccolo centro di Triggiano. Quando finalmente, a poche settimane dall’inizio del campionato, l’impresa venne a srotolare il prato sintetico sul terreno di gioco, il campo dei Metropolitani divenne l’unico al mondo ad avere le porte in due comuni diversi.
Mi ritrovai a giocare nei Metropolitani a ventisette anni, quando il vigore fisico e il continuo allenamento mi avevano reso largamente più forte degli amici con cui condividevo le partitelle amatoriali. Il gestore dei campi dove giocavamo si fermò un paio di volte a osservare i miei numeri, poi mi prese da parte e mi parlò di questa squadra che iniziava l’avventura nel calcio a cinque agonistico, partendo dalla serie più bassa, la C2. Stimolata la mia curiosità, mi disse che mi avrebbe fatto conoscere l’allenatore.
Mister Martino aveva l’aspetto di certe rocce che si oppongono al vento, i capelli ricci e impomatati, e l’aria di uno che difficilmente ripeta due volte la stessa cosa. Prendemmo appuntamento nella piazza di Carbonara. Lui scese dalla sua berlina, mi strinse la mano bruscamente, non mi fece nessuna domanda e mi informò dell’orario degli allenamenti, mise una mano in tasca, ne tirò fuori un pacchetto di Marlboro morbide e se lo portò alla bocca facendone saltare una fra le labbra. Mi guardò quel tanto che durò il suo rialzare lo sguardo dopo aver acceso la cicca, prima di scavalcarmi ed entrare nel bar della piazza. Non avevo ben chiaro in cosa consistesse un provino calcistico, né nessun elemento che mi aiutasse a capire se quello che avevo appena avuto fosse andato bene.
La prima volta che arrivai al campo per l’allenamento, chiesi a Presidente di indicarmi il numero dello spogliatoio nel quale cambiarmi. Quello indicò con un cenno del capo una porta che affacciava su una rampa di scale, lasciando intendere che non potessi sbagliarmi. Scesi le scale seguendo il baccano di voci che provenivano da una delle piccole stanze e quando misi piede nello spogliatoio dei Metropolitani, la gente fece silenzio di colpo. Lievemente stordito dall’odore di corpi sudati e canforati, mi presentai a ognuno di loro, muovendomi in senso orario nel quadrante dello spogliatoio, fino a prendere posto su una panchina libera a ore undici. Quando mi ebbero squadrato per bene, nel giro di pochi secondi ricominciarono a urlare.
Ci misi due tre sedute di allenamento per iniziare a memorizzare nomi, volti e abilità calcistiche. Ci stava Manuel: brevilineo e ambidestro, sempre mesciato e abbronzato. Poi Cosimo, spalle strette e gambe arcuate, figlio di un boss, diceva di tenere una pistola nel borsone e forse per quello nessuno gli contestava mai l’ultima parola in ogni discussione. Martino Martino era il figlio del Mister e lo portava scritto in faccia oltre che in quella carta d’identità simile a un’anafora orfana di parole amiche, quante poche possibilità di variazione avesse avuto nella vita. Nei minuti passati davanti agli specchi a ingelatinarsi i capelli, nella assoluta preferenza del possesso della sfera rispetto al movimento senza palla, nel bullismo da spogliatoio che scaturiva da un’inezia e spesso arrivava alla minaccia fisica, ogni calciatore dei Metropolitani riportava a galla quello che era stato fino a quel momento nella sua vita: il playboy adolescente, il talento mai esploso, l’indolente arrogante, l’impiccioso e il topino. Per ognuno dei Metropolitani era facile leggere con chiarezza ciò che era stato, mentre nulla riuscivo a immaginare delle loro vite in avanti. Tutti, in quella squadra, erano più vicini alla fine di qualcosa che a una qualsiasi forma di inizio.
Era così anche per le loro abilità calcistiche, non ce n’era uno che non avesse un passato nelle giovanili di qualche squadra locale di calcio a 11: a ognuno era toccata in dono una dote calcistica particolarmente spiccata al punto da fottergli il destino fin da bambini, e cancellare ogni altro sogno che non fosse fare il calciatore. A chi un piede particolarmente aggraziato, chi un istinto da goleador, chi un colpo di testa poderoso, o un baricentro basso abbinato ad agili gambe. Tutti però, quel dono l’avevano scialacquato in qualche momento della loro esistenza, per inerzia, pigrizia, malasorte o tempismo. Imbolsiti e fiaccati, i Metropolitani avevano ristretto progressivamente le taglie dei propri sogni e le misure del campo da gioco. Dall’undici e undici erano naufragati al calcio a 5, e quel contratto senza compenso che avevano siglato con Presidente rappresentava forse la decisiva certificazione del loro non avercela fatta. Restavano comunque tutti più forti di me, che avevo sempre e solo giocato a calcio con gli amici e nei tornei amatoriali. Mettiamola così: la loro parabola era in fase calante, la mia vedeva in quell’avventura il punto più alto di una linea che non si sarebbe comunque alzata oltre. Le due traiettorie si incontravano in quel campo, al centro del quale passavano un confine comunale tremolante, e assai più esatto e implacabile, l’asintoto orizzontale della mediocrità, sul quale un tempo molto breve ci avrebbe fatto accomodare tutti.
“Mi chiamo Nicola, ma preferisco essere chiamato Tacconi” mi disse e il suo sorriso scintillò. Io gli chiesi di ripetere. “Tacconi, come il portiere della Juve” e rivolse le mani verso di sé, a sottolineare un’evidenza che proprio non poteva sfuggirmi. Lo guardai, i capelli biondi e ricci, gli occhi chiari