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Azzannami

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Di Francesco Marocco

Chi la conosceva attribuiva il soprannome alla malformazione del suo braccio destro. Ma Alarrotta, con due erre che dicevano delle sue origini siciliane, era soltanto una persona per cui volar via era diventato più difficile.

Dicevano di quanto facile fosse portarsela a letto, che le pagavi da bere e se avevi un tetto sotto cui farle passare la notte, questo le bastasse: si spogliava lentamente, le gote arrossate dalla vodka, la punta dei capezzoli ergersi sulla carne bianca, si stendeva sotto, adagiando il braccio offeso dietro la testa, con un vezzo a metà tra una marionetta smontata ed una modella di Goya, e poi si faceva scopare piano, col movimento dolce di un cucchiaio che rimesta in un pentolino di cioccolata calda.

Stava quella sera al punto d’incontro tra due muretti ortogonali, dove il terrazzo del caffè sul fortino si faceva cornicione sul mare, ritratta fino a non poter fuggire. In angolo, con l’ala rotta poggiata sul muretto, attendeva l’avanzare del nuovo maschio.

Il maschio si fece largo tra la gente che affollava il bar, con in mano un bicchiere per lei. Le fu vicino. Alarrotta si voltò al mare. Quando sentì il respiro di lui soffiarle sulla spalla scoperta, nella mano vuota scivolare un bicchiere ghiacciato, mosse la linea del sedere, strofinandosi sul maschio fino a sentirne l’erezione. Sentì una carezza sul braccio offeso e guardò il mare. Forse, un giorno, sarebbe volata via. Mosse i capelli, offrendo al maschio il collo. E una sola parola: “Azzannami”.

“Azzannami”, disse lo Squalo al pitbull, dopo essersi piegato appena in avanti. E agli altri che stavano fuori della gabbia: “Sparategli solo se mi morde al collo. Altrimenti chi spara al cane, io lo sparo a lui…”.

Si arrotolò i polsi della camicia: “Azzannami!” urlò di nuovo alla bestia, battendo le mani. L’animale si limitava a seguire col capo il movimento dello Squalo che gli girava attorno come nei combattimenti dei pugili. Il grasso lo aizzò con un calcio sul fianco. La bestia guaì e prese a ringhiare. “Azzannami” gli ripeté lo Squalo, piegato verso di lui. Fu dopo il terzo colpo che il pitbull gli si scagliò addosso, addentandogli senza esitazione il braccio sudato.

L’uomo prese a ridere e ghignare soddisfatto: “Allora ce le hai le palle, allora ce le hai…” urlava brandendo per aria il braccio sul quale il pitbull sventolava come il drappo nero di un vascello pirata.

Gli uomini dello Squalo ridevano e si rimpallavano una bottiglia da cui prendevano grossi sorsi.

“Ce le hai le palle… fammele sentire allora!” masticò affaticato stringendo le mani tra le gambe dell’animale. Subito dopo, lo avvicinò con forza alla bocca e gli tirò un morso all’altezza del collo. L’animale, pungendo l’aria con i suoi guaiti, mollò allora il braccio del grasso e trovò più comodo affondare il morso sulla testa pelata che gli si era avvicinata troppo. Nel capannone si fece silenzio, contrappuntato dai ringhi dei due combattenti stretti a mordersi l’un l’altro.

Quando il sangue iniziò a scendere giù per la faccia dello Squalo, uno dei suoi tirapiedi tirò fuori il ferro ed entrò nella gabbia. Lo Squalo fu più lesto e sparò per primo. L’esplosione del colpo spaventò l’animale che strinse più forte. Una nuvola di terra si sollevò a pochi centimetri dagli stivali dell’uomo che era entrato nella gabbia.

“Al collo, solo se mi morde al collo…” urlò lo Squalo con i denti serrati sul cane. Stettero lì attaccati ansimando e ringhiando per qualche decina di secondi, finché il pitbull prese a guaire in maniera sempre più acuta. Dopo un altro paio di minuti, la bestia si afflosciò tra le braccia insanguinate dello Squalo, come un pupazzo di pezza. Il grasso lo lasciò al suolo. Per un attimo sembrò guardarlo con il rispetto dovuto ai vinti, poi prese la pistola e gli rovesciò sul corpo un intero caricatore che lo fece sollevare per aria. Nessuno più parlava nel capannone.

Lo Squalo scoppiò a ridere. Riscosse i soldi della scommessa da tutti quelli che avevano puntato sul pitbull, poi afferrò il whisky e senza pulirsi la bocca insanguinata, ne svuotò il fondo.

“Ditelo in giro, che lo Squalo non ha paura di nessuno!”.

 

Forse è l’illusione di sapere la terra rotonda. E allora, se non puoi volare e inizi ad andar giù,val la pena scavare a mani nude sul fondo, perché prima o poi dovresti spuntar fuori dall’altro lato. Così pensava Alarrotta, che solo desiderava un’altra vodka per dimenticare, se non coprire, il sapore del sesso impastato sulla lingua. Un paio d’ore prima, rifiutando di farsi legare al letto dal tipo che l’aveva rimorchiata, s’era trovata sbattuta a calci fuori dalla casa di lui, e così aveva vagato sul lungomare, perfino brevemente orgogliosa di sé. Erano bastate due ore per desiderare di farsi ancora del male. Per un goccio si sarebbe fatta chiunque. Non passarono che dieci minuti da quando il grassone con il capo fasciato entrò nel bar al momento in cui Alarrotta si accorse che sul sedile reclinato di un fuoristrada, tra le gambe quello tentava di infilarle il cannone di una pistola.

Gli aveva chiesto cosa volesse in cambio di un bicchiere e lui aveva risposto leccandole la bocca con un bacio schifoso che sapeva di sangue. Avrebbe voluto allontanare da sé il corpo del grassone, ma il suo braccio offeso non le fu d’aiuto. Alarrotta non poteva volare.

E mentre lui, parcheggiata l’auto sulla scogliera, l’afferrava carponi e tentava di sostituire l’erezione che non riusciva ad avere con il ferro della  pistola, lei capì che solo premendo quel grilletto avrebbe potuto forse dispiegarsi in volo. Avvicinò allora la sua mano tra le gambe, strinse la pistola, sentì il freddo del metallo tra le dita, cercò il grilletto. Sparò.

 

Si accorse del sorriso di intesa tra le due hostess che trascinavano il carrellino delle bevande, indicando le targhette che aveva dimenticato di togliere dalla gonna e dal maglione. Chiese una vodka. Le diedero una bottiglietta in miniatura, di quelle ridicole da collezione. Per cinque euro l’una avrebbe potuto comprarsene almeno mille, comprovò cavando un rotolo di banconote da cinquanta dalla borsetta. E fu tentata di farlo. I soldi che aveva trovato nelle tasche del grosso dopo avergli sparato, erano buoni per pagarsi più roba da bere di quanta ne avesse scolata in vita sua.

Poi guardò fuori, il sole galleggiava più in alto di un vestito di nuvole filiformi, disegnando nell’aria raggi luminosi che non aveva mai intuito.

Di lì a pochi minuti l’aereo avrebbe iniziato la sua discesa verso Palermo.

Prese i quarantacinque euro di resto, guardò fuori, il mare celeste che tesseva assieme i frammenti delle Eolie: le sembrava, per la prima volta dopo tanto tempo, che ci fosse un perché alla forma delle cose, che tutto fosse al posto giusto. Si versò rapidamente il cicchetto in gola, poi asciugò una lacrima con il dorso della mano.

 


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